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  p o e m s
  a t t i l i o  b e r t o l u c c i 
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 a G.
 
 Non soltanto guardare le piante
 lo spazio fra le piante una casa
 e un’altra più distante
 assorta in una luce dorata
 perché il giorno d’inverno che va via
 l’ha illuminata a metà –
 
 ma guardarle in una tela che tu
 mi mostri e che rivela –
 dolore e gioia dei dodici anni già
 sul punto di finire,
 dei miei nei tuoi – quelle piante spogliate
 da un inverno in cui vorrei
 
 che tu crescessi naturalmente vincendo
 il rigore del clima e della gente
 con la fiera dolcezza
 della tua indole a sua volta temprata
 non vinta dai geli, dagli sguardi
 di chi ti ama, ma chiama padrone –
 
 non soltanto guardare in prospettiva
 i tigli nudi e la nostra casa
 e un passero che arriva e si posa
 sul ginepro pungente in una luce
 che l’ombra bacia e spezza, può lenire,
 ma un rosso sul grigio, la mia mente?
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     a Giorgio Cusatelli che guardava dallafinestra distraendosi dallo “Stiffelio”
 Chi con cembali e timpani chi con risa e gridicon parrucche scivolanti in avanti sugli occhi allegri
 
 così anima il lungofiume stipato di neve poi
 che l’ultima sera di carnevale ruotando s’accosta
 
 alle dodici e arde sui quadranti rivolti
 al cittadino un invito ruffiano o un ammonimento?
 
 Ma non sono clown questi che hanno graziosamente
 trasformato in teatro la pensilina delle foresi
 
 dormienti ora e ancora altre ore prima
 dell’amaro mercoledì che è domani in rimesse
 
 e parcheggi provinciali dislocati a monte
 a valle ben lontano da qui dove un torneo lento
 
 di macchine sfila procede e si perde
 per ricomparire luci versando a fiotti
 
 sulle instancabili provocatrici e loro
 stivali maculati di bianco corpetti
 
 in cui l’oro rilega pelo d’agnello
 madido di un inverno ormai al suo termine irreparabile...
 
 I travestiti di Parma erano un tempo commessi
 scolari sarti garzoni di barberìa
 
 in doppio apprendistato sotto maestri esperti
 nelle due arti e anche non sempre in bel canto
 
 col gusto di tradire il genio del luogo se è
 Cremonini a chiamare con tanta dolcezza
 
 l’animale gentile e canoro strumento
 ambiguo di voluttà alla mente convulsa...
 
 Vengono e vengono da città vicine
 alla petite capitale d’autrefois che suoi cittadini
 
 empi e rozzi non vogliono ducale per inserirla
 nel dialogo nell’abbraccio mortale America Russia
 
 sotto il segno intrecciato della pop art e della democrazia progressiva.
 Ma s’accostino prudenti che potrebbero sembrare
 
 clienti timidi o voyeurs moralisti e venire
 irrisi o colpiti da palle di neve infallibili
 
 e riconoscano in queste feste di Parma
 in questi costumi fantasiosi e impudenti
 
 la linea serpentina locale ripresa
 con inaudito sprezzo del pericolo
 
 da figli del popolo e dei borghi malsani
 fioriti di sorelle dalle dolci gambe cui
 
 rubare atteggiamenti e fondi tinta
 per la necessità di essere inanzitutto colpevoli.
 
 Ha ripreso a nevicare i forestieri se ne vanno
 felpati i rimasti non demordono
 
 inventano mimiche accordate
 all’infinita discesa di farfalle dal cielo.
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 La settimana si apre con azzurro e bianco
 mobilità e suono nuvole e stormi volanti
 parole portate via dal vento lasciate
 cadere nel viale ad ammucchiarsi con le foglie
 
 e tanto amore inutilizzabile ai confini dell’inverno
 a meno di non bruciarlo fra cartoni e plateaux
 schiodati con allegria dove bruniva uva
 faville e fumo fanno precipitare la sera
 
 e l’età unitamente così che di lagrime
 ti si mescola il vino che da sempre consola
 chi giunge a questi termini ferrei del giorno
 e della città terrena ormai palpitante
 
 d’abbracci sulle rive di fango
 e sussurrante addii propizi a una notte
 che ognuno dovrà affrontare solo vizio e orazione
 smorendo inalimentati presso i letti raggiunti.
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 Qui dove un poeta ha pianto e delirato un mese
 della sua vita - un aprile
 di nuvole,
 di bel cielo sereno
 insidiato di crepe –
 sbattono le persiane abbandonate.
 
 Dove avete portato
 le vostre droghe e preghiere,
 Figlie della Sapienza, figlie
 della pazienza, tanto
 buone cuciniere e allegre
 dispensiere di minestre e di vino
 per la gran fame nel tardo mattino?
 
 Qui un altro giorno, già
 demolite quelle stanze care,
 già più avanzato l’anno e la fabbrica
 nuova ormai alta, sonora
 d’un cantiere che tace
 solo se il mezzogiorno spacca in luce e ombra
 pane e frittata, al muratore ho chiesto inutilmente:
 
 “Dove sono emigrate
 quelle vecchie e giovani suore
 che con aghi, con fiale
 sconfiggevano il male, precise
 come lancette sul quadrante a usarle
 senza errore, alternandole
 con preghiere cristiane?”
 
 Che io sappia dove sono, che io sappia
 che non sono partite
 dalla città che genera in eccesso
 la voluttà e il dolore, che io
 le sappia, in quest’ora
 che precede la notte e l’inverno,
 ancora sagge e pazienti nel fugare
 
 per me, per tutti noi, sulla terra l’inferno.
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